Pomi d’adamo
Poco appariscenti o produttivi, ma spesso saporiti, profumati, facilmente conservabili, resistenti ad avversità o agenti patogeni. Soprattutto, patrimonio di biodiversità a rischio estinzione. Aumentano le iniziative in loro difesa.
Dalla notte dei tempi l’affascinante mondo delle piante, di quegli esseri che congiungono la terra con il cielo, ha accompagnato la specie umana. Ben prima della comparsa dell’uomo, il mondo vegetale si era diffuso su tutta la terra. Le piante si erano diversificate in modo da adattarsi alle enormi varietà degli ecosistemi esistenti.
L’uomo ha sempre vissuto circondato dalle piante, perché esse sono necessarie per qualsiasi forma di vita. Il primo rapporto dell’uomo con il mondo vegetale è stato sensoriale ed istintivo. Le ha osservate e conosciute in un rapporto di contiguità quotidiano.
Guardarle con attenzione, odorarle, imparare a distinguerle, sperimentarle, servirsene per le proprie necessità, entrare in intimità con esse fino a cibarsene e a farsi curare, trasmettere ad altri le conoscenze acquisite, deve essere stato un processo di scoperta lungo ed entusiasmante.
Come, dove e quando nasce l’agricoltura? Non possiamo saperlo con certezza. Nella società primitiva matriarcale era la donna a garantire la sicurezza alimentare con la raccolta di bacche, piccoli frutti ed altri vegetali commestibili, perché la caccia, riservata agli uomini, dava risultati più aleatori.
Senza dubbio la nascita dell’agricoltura è il risultato di un grande processo di semplificazione: sostituire all’estrema complessità delle interrelazioni che legano insetti, animali e piante vivi e morti esistenti in una foresta, con una situazione in cui tutto poteva essere controllato più facilmente.
La creazione di un campo, vale a dire fare tabula rasa di tutto il vivente presente in uno spazio opportunamente prescelto e la semina in questo stesso luogo di vegetali utili di cui si poteva seguire quotidianamente l’evoluzione della crescita, è stata la geniale invenzione man mano perfezionata da una catena di nostri antenati ai quali probabilmente dobbiamo la sopravvivenza della nostra specie sulla terra.
L’uomo, agli albori dell’agricoltura, passa attraverso varie fasi di seminomadismo con la coltivazione dei cereali (annuali) diventando sempre più sedentario quando inizia a coltivare la vite e gli altri alberi da frutto (pluriennali): si porta vicino a casa le piante utili e subito inizia a selezionare quelle che meglio soddisfano le sue esigenze, soprattutto in base alla produttività. Ma coltivare non basta: da una parte bisogna imparare a conservare il cibo, e dall’altra continuare a migliorare ciò che si produce.
I percorsi dell’innovazione
Dai granai interrati rinvenuti ad El Fayum in Egitto e risalenti al IV millennio a.C., ai vasi etruschi, passando per i grandi magazzini minoici e micenei, possiamo avere le testimonianze di come i cereali, soprattutto frumento e orzo, venivano stoccati per far fronte alle future necessità alimentari.
La fumigazione e la salatura delle carni e del pesce, l’essiccazione al sole di alcuni frutti, la trasformazione del latte in formaggio e dell’uva in vino, e, per i potenti che potevano permetterselo, la costruzione delle ghiacciaie (di cui ci sono ritrovamenti risalenti al 2000 a.C.), furono altrettanti sistemi per conservare il cibo scongiurando le avversità e la carestia.
Non meno ricco di fascino è ciò che avviene sul fronte del miglioramento dei prodotti agricoli. Qui altri sono gli elementi che l’agricoltore antesignano deve prendere in considerazione: la presenza d’acqua, la composizione e la morfologia del suolo, l’altitudine sul livello del mare, l’esposizione del terreno al sole e ai venti, la possibilità di gelate tardive, la presenza di parassiti vegetali ed animali e la difesa dai nemici (tra cui anche gli altri esseri umani).
Il lungo processo di domesticazione delle piante e il miglioramento dei loro frutti quindi è sempre più legato al territorio di uno specifico insediamento umano in cui una varietà è riuscita a sopravvivere e ad adattarsi.
Infatti, da una parte la selezione naturale elimina i vegetali non adatti a quell’ambiente specifico, dall’altra l’uomo continua ad effettuare le sue scelte, riproducendo solo i frutti che ritiene migliori: i più belli, i più grossi, i più saporiti, i più serbevoli, quelli con il maggior valore nutrizionale.
Oggi possiamo dire che la moderna agricoltura è la sintesi rielaborata del contributo delle antiche civiltà agrarie di tutti i continenti. Frumento ed orzo infatti provengono dalla regione detta mezzaluna fertile (Etiopia, Somalia, Eritrea ed Arabia Saudita sud-occidentale); mais, patata, melanzana e pomodoro dall’America centrale e dalla regione andina; riso dall’India e dal sud-est asiatico; albicocca, arancia, ciliegia e pesca dalla Cina; dall’Europa provengono avena, asparago, cavolo, lattuga e olivo.
Cenni sull’evoluzione della frutticoltura in Italia
Troviamo le prime tracce di varietà di frutti presenti in Italia tra le palafitte neolitiche, risalenti all’età del bronzo, di Lagozza di Besnate, presso Gallarate (Va), nel bacino del Ticino, dove sono stati ritrovati numerosi semi di melo, a testimonianza della presenza, presso l’insediamento, di piante di questa specie, che potrebbero essere assunte a primo segno di frutticoltura in Italia.
Castagno, fico, ciliegio dolce, vite, melo e pero più o meno simili ai loro parenti selvatici sono i primi frutti che le antiche popolazioni che formano le prime comunità nella penisola italica trovano per il proprio nutrimento.
Tra gli autori latini ve ne sono ben quattro che ci informano sulla frutticoltura in epoca romana: Catone (III-II sec. a.C.), Varrone (II-I sec. a.C.), Columella (I sec. d.C.) e Plinio, (I sec. d.C.) con la sua “Historia Naturalis”.
Dopo questo periodo inizia, con la crisi e la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel V sec. e i grandi movimenti migratori eurasiatici e nordafricani della seconda metà del primo millennio, un lungo periodo di sopravvivenza e di stenti sia materiali che intellettuali, rischiarati soltanto, in campo frutticolo, dall’introduzione degli agrumi ad opera degli arabi nell’Italia meridionale attorno all’anno mille.
Bisogna attendere circa cinque secoli per avere dal bresciano Agostino Gallo brevissime descrizioni varietali nel suo Le tredici giornate della vera agricoltura e dei piaceri della villa per i tipi di Nicolò Bevilacqua, Venezia 1566.
Ma lungo tutto il Rinascimento la frutticoltura non farà che incrementarsi soprattutto ad opera dei grandi mecenati come Cosimo I e suo nipote Cosimo III De’ Medici, Granduchi di Toscana.
Cosimo III dispone addirittura di tre navi che trasportano tra Livorno e Amsterdam non solo gioielli e quadri e cavalli da donare ai regnanti, ma anche piante e frutti di ananas, liste d’erbe, medaglie per onorare sapienti giardinieri olandesi, piante d’agrumi, macchine per scaldare il suolo, listini della Compagnia delle Indie.
Le arti della riproduzione
Ma soprattutto, presso la sua corte, tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700, opera Bartolomeo Bimbi, valente pittore che può essere considerato il primo pomologo (studioso di frutta) sistematico italiano. Infatti, non solo il Bimbi ritrae per Cosimo III tutta la frutta presente nel Granducato di Toscana e precisamente 10 varietà di albicocca, 26 di pesca, 66 di ciliegia, 30 di fico, 53 di mela, 109 di pera, 75 di susina, 75 di uva e ben 116 varietà di agrumi, ma anche correda ogni tela con un cartiglio inserito nel dipinto che riporta i nomi collegati ai numeri di riferimento con cui le varie frutta vengono designate.
La frutticoltura continuerà ad arricchirsi di varietà fino a tutto il XIX sec. Spesso sono i monasteri veri e propri centri di moltiplicazione delle piante e di creazione di nuove varietà tramite incrocio. Basti pensare che i frati della Chartreuse de Paris moltiplicano tra il 1650 e il 1789 più di un milione di piante da frutto e questo costituisce di gran lunga il principale introito della Certosa.
Dopo il Bimbi, altra eccezionale figura di pomologo del primo ottocento è quella del Conte Giorgio Gallesio, che, dopo aver preso parte attiva nella vita politica, si lancia in un’impresa editoriale senza precedenti nel nostro Paese.
Infatti, la pubblicazione della sua monumentale Pomona Italiana, composta da 41 dispense edite tra il 1817 e il 1839 per i tipi di Giovanni Rosini, ha l’ambizioso progetto di descrivere “le varietà più squisite” del repertorio frutticolo nazionale. Per lo splendido apparato iconografico formato da 160 tavole a colori il Gallesio mobilita una nutrita schiera di pittori naturalisti tra i quali Antonio Serantoni, Domenico Del Pino e Domenico Del Re.
La Pomona segue di qualche anno il Traité du citrus, Parigi 1811 per i tipi di P. Didot, che viene pubblicato privo dell’apparato iconografico delle tavole di agrumi.
I disegni originali della Pomona Italiana sono tempere in folio i cui soggetti (foglie, fiori, frutti, semi) sono rappresentati a grandezza naturale e con uno straordinario realismo. Trasferiti su lastre di rame, venivano stampati a mezzotinto e poi finiti a mano, foglio per foglio, da pazienti “coloritori” e infine “cilindrati” per cercare di esaltare al massimo la brillantezza dei toni cromatici.
Le tavole della Pomona italiana e gli agrumi disegnati per il Traité du citrus sono da molti considerate le più belle tavole botaniche italiane e tra le più belle europee.
Varietà emarginate
Le varietà frutticole, che dal Rinascimento in poi avevano continuato a crescere di numero, iniziano drasticamente a scomparire con l’avvento dell’industrializzazione in agricoltura a partire dal 1950.
In quegli anni, infatti, la produzione frutticola su larga si orienta su poche varietà che garantiscono elevata produttività, uniformità di pezzatura, resistenza alle manipolazioni e ai trasporti, costanza nella produzione, contemporaneità nella maturazione, adattabilità a sistemi di lavorazione e raccolta industriali. Le qualità estetiche devono adattarsi ad un consumatore frettoloso e distratto, ma insieme molto esigente e timoroso, che ritiene le minime imperfezioni di forma indici di cattiva qualità merceologica.
Messe ai margini dai processi economici, stanno scomparendo le antiche varietà locali, magari poco appariscenti o produttive, ma spesso saporite, profumate, di facile conservazione, raccolte da piante naturalmente predisposte a resistere alle avversità ambientali o agli agenti patogeni di origine vegetale ed animale, senza il necessario uso di pesticidi e fertilizzanti con cui vengono irrorate le varietà più commerciali.
Dal canto suo il mondo scientifico internazionale e le organizzazioni mondiali che si preoccupano del futuro alimentare del pianeta hanno richiamato l’attenzione sul pericolo derivante dalla scomparsa varietale (tecnicamente erosione genetica) nel settore agricolo. Pericolo gravissimo soprattutto per l’accelerazione che tale fenomeno ha subito nel corso del ‘900. Basti pensare che dalla fine dell’800 ad oggi sono andate perdute tre varietà su quattro di piante coltivate e il ritmo di estinzione è tuttora elevatissimo.
Il patrimonio genetico di una varietà, con le conoscenze scientifiche attuali, non è ricostruibile e quando una varietà storica scompare, scompare per sempre. Con la sua estinzione perdono di significato gli studi e le ricerche che gli uomini di scienza ci hanno lasciato nel corso della storia; viene vanificato il lavoro di secoli dei contadini che l’hanno selezionata, coltivata, curata e ce l’hanno tramandata; diventano inutili le ricette di cucina nelle quali veniva utilizzata e nessuno potrà più apprezzare il suo sapore e il suo profumo e prendere piacere e forza da questo alimento. Ne risulta quindi un impoverimento per tutta la collettività.
Conservare le antiche varietà vegetali risulta particolarmente importante sia per il futuro miglioramento genetico che per disporre di geni di resistenza alle malattie che possono attaccare l’ormai ristretta gamma delle principali piante necessarie all’alimentazione dell’uomo.
Le finalità e i più recenti progetti di un’associazione nata con l’obiettivo di proteggere le vecchie coltivazioni di frutti e di valorizzare la grande biodiversità “pomologica”
Per contrastare la scomparsa della vecchie cultivar e per la loro valorizzazione nel 1993 nasce Pomona, associazione onlus che prende il nome dalla dea latina protettrice di giardini e frutteti. Oltre al suo impegno didattico, con corsi e attività pratiche nelle scuole, l’associazione promuove mostre pomologiche in cui si possono vedere esposti centinaia di frutti di varietà antiche ancora esistenti in Italia. Pomona inoltre si propone come anello di congiunzione tra il mondo universitario-istituzionale e privati cittadini o gruppi di amici che, per passione, setacciano il proprio territorio alla ricerca delle vecchie cultivar. Attualmente l’attenzione di Pomona è rivolta a due iniziative di particolare rilevanza: L’intervento di salvaguardia nel Parco del Cilento (SA) e la costruzione del conservatorio botanico a Pieve Emanuele (MI). Nel Parco del Cilento Pomona collabora con Il Parco Nazionale del Cilento e la Cooperativa Arcella di Celle di Bulgheria al reperimento, conservazione, valutazione varietale ed eventuale valorizzazione commerciale delle piante di interesse agricolo reperibili nel territorio del Parco. Il progetto prevede: l’impianto di campi collezione, campi vivaio e campi produzione di fruttifere arboree locali; l’organizzazione di una grande mostra pomologica che si svolgerà dal 18 al 20 ottobre a Vallo della Lucania (SA), sede del Parco, articolata in quattro sezioni: frutta, ortaggi, leguminose e cereali (una sezione particolare sarà dedicata al fagiolo, visto che il Museo delle antiche coltivazioni di Sassano ne ha già classificate 48 varietà); infine, il riconoscimento da parte delle autorità del Parco del lavoro svolto dagli Agricoltori custodi, e cioè da quei contadini che hanno coltivato le varietà antiche fino ai nostri giorni.
Il conservatorio botanico di Pieve Emanuele
Pieve Emanuele, nel Parco Agricolo Sud Milano, si propone di diventare il primo comune italiano conservatorio della biodiversità. Già nell’anno 2000 Pomona ha realizzato, a Tolcinasco, l’impianto di un arboreto di varietà antiche di fruttifere arboree un tempo maggiormente coltivate in pianura padana, con una interessante selezione di varietà rare di melo, pero, ciliegio, susino e gelso.
Nella primavera 2001 al giardino dei buoni frutti è seguito un secondo impianto che ha consentito di mettere a dimora una collezione di fichi di oltre cinquanta varietà, provenienti dalle diverse regioni italiane, tra cui alcune varietà storiche rarissime che si pensavano addirittura estinte. Nella primavera del 2002 un impianto di frutti minori ha aggiunto una nuova importante collezione di specie e varietà di frutti, alcuni noti mentre altri decisamente insoliti. Alcuni esempi delle varietà: melograno, cotogno maliforme, cotogno piriforme, castagno, noce, nocciolo, mandorlo, sorbo, asinina triloba, biricoccolo, giuggiolo, nespolo del Giappone, nespolo germanico, amelanchier canadensis, corbezzolo, corniolo, azzeruolo giallo, azzeruolo rosso. Si è così venuto a creare uno spazio protetto e recintato in cui stanno crescendo già 160 alberi da frutto che già costituiscono una tra le più ragguardevoli e qualificate collezioni di fruttifere antiche coltivate in uno spazio destinato al pubblico. Tra l’autunno di quest’anno e la primavera del 2003 arricchiranno l’interesse una sessantina di vitigni storici alcuni destinati alla produzione di uve da tavola (collezione nazionale), altri di uve da vino di varietà lombarde, altri ancora di uve a doppia attitudine (vino e tavola).
Il Comune di Pieve Emanuele, non solo ha messo ha disposizione uno spazio qualificato all’interno del territorio comunale, ma ha mostrato interesse e impegno nel portare avanti l’iniziativa. Per integrare le sue limitate disponibilità di bilancio, il Comune, il Parco Agricolo Sud Milano e l’associazione Pomona hanno pensato di ricorrere ad un finanziamento privato aperto a coloro (società o semplici cittadini) che vogliano contribuire concretamente alla tutela del patrimonio delle piante agricole tramite l’adozione di una pianta a rischio di estinzione. L’idea è quella di dare la possibilità a tutti coloro che sono interessati a partecipare concretamente ad un progetto di conservazione, di poterlo fare in un modo semplice e diretto. Tale iniziativa (di cui è un esempio l’adozione del Fico fetifero o dall’osso da parte di Fitomedical, azienda erboristica con sede nel Comune), aspetta nuovi aderenti e sostenitori. Per le informazioni e modalità relative all’adozione di una antica varietà: Pomona, tel 02 3450751.
Articolo tratto dal mensile Erboristeria Domani n° 261.